Le seguenti osservazioni nascono da un mio post su Facebook con lo stesso argomento del titolo, al quale aggiungevo, oltre al rapporto genitore-figli, anche il rapporto marito-moglie.
Queste osservazioni sono frutto di esperienze personali e da studi fatti nella metodologia dell’insegnamento, e non escludo la presenza di eccezioni che mi contraddicano. Ma forse, dico forse, l’eccezione conferma la regola.
Preciso che non prenderò in esame l’aspetto della prestazione sportiva, che potrebbe essere eccellente, ed arrivare anche a livelli mondiali, e molti casi nello sport lo confermano. Questa aspetto mi interessa meno di quanto andrò ad esporre.
Per una migliore analisi del mio pensiero distinguerei i due casi:
Quando l’allenatore è il coniuge.
In questo caso non vedo motivi psicopedagogici che possano sconsigliare ad un allenatore di allenare il proprio coniuge, ma vedo solamente un problema di opportunità, e cioè quello di evitare conflitti sul campo sportivo, che fatalmente vengono poi riportati a casa insieme all’attrezzatura sportiva.
Diverso è il caso, patologico, in cui vi sia un rapporto di sudditanza di un coniuge rispetto all’altro, caso che non affronto perché potrebbe far parte della psicoterapia, se non della clinica psichiatrica.
Quando l’allenatore è il padre.
Le osservazioni che possono sostenere la tesi che è consigliabile separare la figura dell’allenatore da quella del padre sono diverse: ne elenco alcune:
- Il detto “la troppa confidenza fa perdere la riverenza” rappresenta una possibilità di un cattivo rapporto allenatore-allievo nel caso dell’allenatore genitore.
- Un altro motivo per cui ritengo sconsigliabile questo tipo di rapporto è lo stesso elencato nel caso dell’allenatore coniuge, cioè di conflitti sul campo che vengono riportati a casa, con l’aggravante che i conflitti generazionali sono una costante nella crescita dei ragazzi, quindi sono una certezza.
- Il terzo motivo è che l’allenatore genitore potrebbe pretendere dal figlio prestazioni migliori di quelle richieste ad altri atleti, o potrebbe trattare il proprio figlio con maggior severità rispetto agli altri nella ricerca dell’imparzialità, mettendo il figlio in posizione di disagio rispetto agli altri.
- Ma il motivo che ritengo MOLTO importante è l’aspetto positivo che esercita la figura dell’allenatore, estraneo alla famiglia, nella crescita del ragazzo in età evolutiva.
La figura dell’allenatore nell’età evolutiva.
Tralasciamo in toto, come ho premesso, il risultato agonistico, e prendiamo in esame il rapporto transazionale, in particolare tra allenatore ed atleta. Io penso che la figura dell’allenatore debba essere separata da quella di genitore per diversi motivi, ed il principale, come dicevo, non è quello della riuscita o meno della prestazione sportiva, o della “confidenza che fa perdere la riverenza”, o quello dei possibili conflitti portati all’interno della famiglia, ma è ciò che rappresenta la figura dell’allenatore nella crescita psicologica nell’età evolutiva: questa figura di “maestro” per poter svolgere il suo ruolo, che ritengo importantissimo, deve stare al di fuori della famiglia, perché rappresenta, più dell’insegnante a scuola, il momento di crescita nel rapportarsi in libertà con il mondo esterno alla famiglia. L’autostima del ragazzo verrà accresciuta se si vedrà apprezzato da una figura esterna alla famiglia: il giudizio e la conseguente “ricompensa” o “castigo” da parte dell’allenatore non hanno lo stesso valore se impartiti dal genitore.
A parziale riprova di questo ricordo che non sono rari i casi di gelosia del genitore verso l’allenatore, per il diverso comportamento del figlio nei riguardi delle due figure!
Nel mondo sportivo, se questo sarà separato della famiglia, il ragazzo imparerà a rapportarsi con il prossimo, ad autogestirsi, ad imparare una disciplina rispettata perché condivisa, a risolvere i conflitti, ed imparerà il rispetto.
Tutto questo è il valore dello sport, e non mi interessa avere un figlio diventato campione del mondo, mi interessa avere un figlio diventato uomo.
Pensiero della notte.
I figli non sono “nostri”, di nostra proprietà, e spesso si commette l’errore di “chiedere” al figlio, invece di dare, e si vorrebbe sempre “tenerli” piuttosto che “lasciarli andare”.
Sempre secondo il mio modestissimo parere!